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Cari lettori,

di ogni canto troverete la versione in volgare e, sotto di essa, la parafrasi. Prima dei canti veri e propri, troverete la vita di Dante, la struttura di Inferno, Purgatorio e Paradiso (ciascuna con la bacheca dei personaggi sotto) e i riassunti dei canti.

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FONTI:

Introduzione

La "Divina Commedia" è il capolavoro di Dante Alighieri. Essa è un poema diviso in tre cantiche, Inferno, Purgatorio e Paradiso, a loro volta divisi in 33 canti ciascuno, ad eccezione dell'Inferno, che presenta un canto in più di introduzione. Quindi sono 100 canti in tutto.
L'Inferno dantesco ha una struttura a cono rovesciato, è una gigantesca voragine di forma conica, che si apre nell'emisfero boreale sotto gerusalemme e giunge fino al centro della Terra; esso ebbe origine quando Lucifero si ribellò all'autorità divina e fu così punito da Dio con i suoi seguaci: essi furono scagliati sulla terra che, inorridita per l'empietà, si ritirò dando origine al baratro infernale. Quest'ultimo è preceduto da un ampio vestibolo, cioè l'Antinferno, dove sono puniti gli ignavi, che in vita rifiutarono di seguire per paura e per viltà sia il bene sia il male, e gli angeli che, nello scontro con Dio, rimasero neutrali; tutti questi sono così spregevoli che sono rifiutati sia nell'Inferno sia nel Paradiso. L'Inferno è diviso in nove cerchi concentrici, alcuni dei quali sono a loro volta suddivisi in fasce secondarie: il settimo cerchio è diviso in tre gironi, l'ottavo cerchio è diviso in dieci bolgie, e il nono e ultimo cerchio è diviso in quattro zone. Nell'Inferno vengono punite tutte le anime che hanno sempre peccato in vita e non hanno alcuna speranza di salvezza. Nell'ultima zona del nono cerchio, la Giudecca, si trova Lucifero, insieme a Giuda, Bruto, Cassio e tutti i traditori dei benfattori.
Il Purgatorio è una montagna immaginaria che si trova su un'isola in mezzo all'oceano. La sua forma a tronco di cono riflette la forma cava dell'Inferno, ossia quella porzione di terra che si ritrasse per evitare il contatto con Lucifero, precipitato dal cielo. Ai piedi dell'enorme montagna si trova una breve spiaggia, dove approda la piccola nave di penitenti guidata dall'Angelo nocchiero. Da lì inizia la salita di purificazione al monte. Il Purgatorio è diviso in tre parti: l'Antipurgatorio, a sua volta diviso in quattro schiere, dove risiedono i negligenti, ossia coloro che si pentirono all'ultimo momento dei loro peccati; il Purgatorio vero e proprio, diviso in dieci cornici, dove risiedono coloro che, prima di salire in Paradiso, debbono scontare la loro pena, percorrendo tutte le cornici; il Paradiso Terrestre. Il custode del Purgatorio è Catone.
Il Paradiso è diviso in nove cieli (ciascuno dei quali si trova sempre più vicino a Dio), dove risiedono le anime beate, tra cui Beatrice. I primi sette cieli prendono i loro nomi dal pianeta che ha la sua orbita apparente intorno alla Terra. L'ottavo cielo è detto delle "Stelle Fisse" poichè vi orbitano tutti gli altri astri in posizioni reciproche sempre uguali fra di loro. Il nono cielo è detto "Primo Mobile o Cristallino" perchè imprime il movimento agli altri otto cieli precedenti. Infine vi è l'Empireo, cielo eterno e infinito, in cui ha sede Dio nella sua vera e propria essenza.

giovedì 19 marzo 2009

Vita di Dante Alighieri




Dante Alighieri nacque a Firenze nel 1265. Suo padre faceva parte della nobiltà cittadina guelfa. Quando Dante aveva 12 anni, nel 1277, fu concordato il suo matrimonio con Gemma, figlia di Messer Manetto Donati, che successivamente sposò all'età di 20 anni. Contrarre matrimoni in età così precoce era abbastanza comune a quell'epoca ed era una cerimonia importante, che richiedeva atti formali sottoscritti davanti ad un notaio. La famiglia a cui Gemma apparteneva - i Donati - era una delle più importanti nella Firenze tardo-medievale (e in seguito divenne il punto di riferimento per lo schieramento politico opposto a quello del poeta, i guelfi neri). Frequentò gruppi fiorentini giovanili, in cui conobbe Beatrice, la sua amata. Le rime a lei dedicate vennero raccolte in una delle sue opere: la "vita nova". Da Gemma Dante ebbe tre figli: Jacopo, Pietro e Antonia. Antonia divenne monaca con il nome di Sorella Beatrice, sembra nel Convento delle Olivetane a Ravenna. Si dice fosse figlio suo anche un certo "Iohannes filius Dantis Aligherii de Florentia", che compare come testimone in un atto del 21 ottobre 1308 a Lucca. A Firenze ebbe una carriera politica di discreta importanza: dopo l'entrata in vigore dei regolamenti di Giano della Bella (1295), che escludevano l'antica nobiltà dalla politica permettendo ai ceti intermedi di ottenere ruoli nella Repubblica, purché iscritti a un'Arte, Dante si immatricolò all'Arte dei Medici e Speziali. Dal Maggio al Dicembre del 1296 fece parte del Consiglio dei Cento. In quegli anni si creò una profonda spaccatura nella classe dirigente guelfa: da un parte vi era la fazione dei Bianchi, che era favorevole ad una gestione autonoma della vita politica, dall'altra la fazione dei neri, legata al Papa da interessi mercantili. Dante si schierò a favore dei Bianchi, mantenendo una posizione moderata. Egli non si trovava a Firenze quando il 1° Novembre 1301, vi entravano le truppe angioine di Carlo di Valois. Il 27 Gennaio 1302 fu condannato con altri fiorentini all'esclusione da ogni carica e al confino per due anni. Non essendosi inoltre presentato per il pagamento di 5000 fiorini, insieme ad altri 14 esponenti del partito Bianco, fu condannato a morte il 10 Marzo del 1302. Così ebbe inizio il lungo periodo d'esilio, durante il quale soggiornò presso varie corti, fino alla sua morte. Fra queste ricordiamo il soggiorno a Poppi, nel Casentino, presso il conte Guido di Battifolle, il soggiorno a Verona, dal 1312, insieme ai figli, e l'ultimo a Ravenna, dal 1318. Morì di febbre il 14 Settembre 1321, mentre faceva ritorno da un'ambasciata a Venezia.


mercoledì 18 marzo 2009

Struttura Inferno e bacheca dei personaggi


- Porta dell'Inferno;
- Antinferno;
è un luogo buio, perchè non c'è l'alternarsi del giorno e della notte. Qui scorre l'Acheronte, fiume infernale, che le anime si accingono ad attraversare: è un fiume stagnante, privo di vita, esattamente come è privo di vita ogni cosa che si trova in questo luogo.
Qui giacciono gli ignavi, ossia coloro che in vita non seguirono nè il bene nè il male, non ebbero alcun ideale e furono insensibili a ogni forma di interesse politico o religioso. Ora, umiliati nella loro nudità, sono tormentati da mosconi e vespe, e il loro sangue è succhiato da orridi vermi ai loro piedi. Sono costretti a riscorrere un'insegna senza significato.
- I cerchio;
è suddiviso in due zone: nella prima regna l'oscurità e si odono soltanto i sospiri dolorosi delle anime; nella seconda si apre uno spazio illuminato da un fuoco e, al centro, si erge un castello ove si aggirano gli spiriti magni, difeso da sette cerchi di mura e da un fiumicello.
I dannati, ossia le anime giuste non battezzate, sono coloro che in vita, pur essendo senza peccato, non hanno ricevuto il battesimo e quindi non hanno conosciuto la fede cristiana. Sono gli unici peccatori a subire una pena spirituale: siccome non hanno conosciuto Cristo, ora desiderano invano di poter contemplare Dio.
- II cerchio;
è una landa priva di luce, battuta da tremende raffiche di vento.
Qui troviamo i lussuriosi, che in vita hanno ricercato le soddisfazioni dei sensi contro ogni regola, abbandonandosi smodatamente alle passioni, tanto da sottomettere la ragione al talento. Ora sono colpiti da un vento furioso che non si acquieta, non conosce sosta e li sospinge trascinandoli per tutto il girone. Come in vita si lasciarono portare dalla tempesta delle passioni, ora subiscono le offese di questa eterna tempesta infernale.
- III cerchio;
il cerchio è invaso da una pioggia mista che cade sulla terra che esala fetore. I dannati, ossia i golosi, sono coloro che in vita hanno ceduto in meniera smodata al desiderio e all'uso del cibo, seguendo istinti pù bestiali che umani. Ora sono riversi a terra e immersi nel fango, flagellati da una pioggia di acqua sporca, neve e grandine. Su di essi infierisce il demonio Cerbero, il cane a tre teste, che li graffia, li scuote e li squarta.
- IV cerchio;
definito lacca, è una fossa vasta e pianeggiante, vigilata da Pluto.
I dannati, ossia gli avari e i prodighi, sono coloro che in vita non fecero altro che amassare (avari) e dispendere (prodighi) ricchezze. Sono divisi in due schiere opposte e percorrono un semicerchio spingendo con il petto dei pesi e, quando si incontrano, si ingiuriano rimproverandosi la colpa commessa. La pena consiste in questo assurdo faticare e nella vana dispersione di energie.
- V cerchio;
è costituito dalla palude Stigia, una lorda pozza di acque nere e fangose, vigilata dal diavolo Flegiàs.
I dannati sono gli iracondi e gli accidiosi: i primi in vita hanno ceduto in modo eccessivo e violento all'impeto dell'ira; i secondi invece sono stati inerti e indifferenti nella pratica del bene. Sono ora immersi nelle acque della palude Stigia e sono separati in due schiere: gli iracondi stanno in superficie, ignudi, sporchi di fango, e si peruotono crudelmente l'un l'altro; gli accidiosi sono interamente ricoperti dal fango e la loro presenza e il loro tormento sono dichiarati solo dalle bolle d'aria sulla superficie dell'acqua stagnante.
- Mura della città di Dite;
da lontano si possono vedere le torri della città infuocata, le cui porte sono vigilate da migliaia di diavoli.
- VI cerchio;
si trova nella città di Dite ed è una vasta pianura disseminata di tombe fra le quali sono accesi fuochi che le fanno arroventare.
Qui giacciono gli eretici, che in vita sostennero opinioni contrarie riguardo alla dottrina della Chiesa. Ora sono sepolti nelle arche infuocate, da cui escono lamenti, e sono divisi in gruppi a seconda della etta di appartenenza.
- VII cerchio;



  • I girone: è formato da un'ampia fossa che circonda tutto il piano ed è costituito dal Flegetonte, un fiume di sangue bollente. Qui si trovano i violenti contro il prossimo, coloro che in vita esercitarono violenza fisica contro gli altri. Ora sono immersi nel Flegetonte e se tentano di uscirne vengono trafitti dalle freccie dei centauri appostati sulle sponde;

  • II girone: è un bosco senza alcun sentiero formato da alberi privi di foglie. Tra i rami fanno il nido delle arpie che emettono cupi lamenti. Qui giacciono i violenti contro se stessi, ossia coloro che in vita hanno esercitato violenza contro se stessi, cioé i suicidi, o contro le proprie sostanze, ossia gli scialacquatori. I primi sono trasformati in alberi e i loro rami vengono straziati dalle arpie; i secondi sono costretti a correre fra gli arbusti per sfuggire ai morsi famelici di cagne insaziabili e, quando vengono raggiunti, sono lacerati e divorati, esattamente come fecero con i loro patrimoni;

  • III girone: è una landa circondata dalla selva dei suicidi; è costituito da un sabbione infuocato sul quale cadono falde di fuoco. I dannati, ossia i violenti contro Dio, la natura e l'arte, sono divisi in tre schiere: i bestemmiatori, che giacciono a terra supini, i sodomiti, che sono costretti a camminare incessantemente, gli usurai, che siedono lungo il bordo del girone e fissano la borsa che pende al loro collo con lo stemma della famiglia di appartenenza. Tutti i dannati sono colpiti dalla pioggia di fuoco.

- VIII cerchio;



  • I bolgia: è delimitata da argini di pietra ed è semparata dall'alto Inferno per mezzo di una parete di roccia. I dannati, ossia i seduttori, sono coloro che in vita minacciarono con la violenza il voncolo dell'amore, corrompendo la donna. Ora sono divisi in due schiere, ruffiani e seduttori, che camminano in senso contrario di marcia e sono frustati con violenza dai diavoli;

  • II bolgia: si presenta come un fondo cupo, pieno di sterco, con le pareti incrostate di muffa provocata dal lezzo che emana dal fondo. I dannati sono gli adulatori, ossia coloro che in vita usarono in modo ingannevole la parola per ottenere vantaggi personali. Ora sono immersi nello sterco e compiono inutili gesti di disperazione nel tentativo di nettarsi dalla sporcizia;

  • III bolgia: le pareti e il fondo della bolgia sono rocciosi, di difficile accesso. Nella pietra si aprono fori regolari, di uguali dimensioni e molto profondi. Qui giacciono i simoniaci, coloro che, sfruttando la loro posizione di potere, fecero commercio delle cose sacre per arricchire se stessi e le proprie famiglie (si tratta soprattutto di ecclesiastici). Ora sono infilati capovolti nelle strette fenditure e sulle piante dei loro piedi brucia una fiamma rossastra. Quando sopraggiunge un nuovo simoniaco, prende posto facendo sprofondare in basso gli altri, mentre i suoi piedi restano fuori dalla buca e ardono. Come in vita non guardarono il cielo ma si dedicarono solo ai beni terreni, ora sono conficcati a testa in giù nella terra. Le fiamme sui piedi sono parodia del fuoco dello Spirito Santo disceso sul capo degli apostoli il giorno della Pentecoste;

  • IV bolgia: la bolgia è descritta come un vallon tondo. I dannati, ossia maghi e indovini, sono coloro che pretesero di conoscere il futuro e di poterlo modificare, usurpando così la dote della preveggenza che è invece prerogativa di Dio. Ora si muovono in cerchio, lentamente, con un pianto ininterrotto. I loro colli sono torti, in modo che il viso sia completamente girano verso la schiena e per questo procedono a ritorso;

  • V bolgia: appare buia poichè sul fondo bolle una pece nera. I peccatori sono i barattieri, che in vita approfittarono della posizione politica, delle cariche pubbliche, per trarne illeciti guadagni, privi di ogni morale, dimentichi del bene collettivo. Ora sono immersi nella pece bollente, impediti a uscirne dai diavoli che li sorvegliano dalle roccie, pronti ad afferrarli e a colpirli con i loro uncini;

  • VI bolgia: ai piedi della parete di roccia più interna, sono ammassate le pietre di un ponte crollato. I dannati, ossia gli ipocriti, sono coloro che in vita furono campioni di doppiezza e finzione, poichè tennero nascosti agli della gente la verità, i loro pensieri, le loro intenzioni, i loro gesti e i loro peccati. Ora camminano molto lentamente, imprigionati da enormi cappe fratesche, d'oro rilucente all'esterno ma di pesantissimo piombo all'interno. Durante il loro procedere, calpestano altri ipocriti stesi a terra, crocifissi con tre pali di legno;

  • VII bolgia: è avvolta da una fittissima nebbia nella quale si distinguono a fatica i dannati, i quali sono i ladri, coloro che in vita trasgredirono il settimo comandamento, ossia quello di non rubare. Ora numerosi serpenti cingono il corpo di questi peccatori e bloccano le loro mani ed essi, indifesi, cercano inutilmente di sfuggire ai loro morsi. Appena un serpente li morde, essi subiscono delle orribili metamorfisi e sono così spogliati della stessa natura umana;

  • VIII bolgia: è immersa in un profondo silenzio ed è avvolta da una fittissima tenebra in cui lampeggiano delle fiamme. I dannati, ossia i consiglieri fraudolenti, sono coloro che in vita posero la loro acuta intelligenza al servizio della frode e dell'inganno. Come in vita usarono la lingua per pronunciare consigli fraudolenti, ora sono imprigionati in lingue di fuoco;

  • IX bolgia: i dannati, ossia i seminatori di scismi e discordie, sono coloro che in vita divisero famiglie, comunità civili e religiose. Ora le loro membra sono mutilate dalla spada di un demonio ogni volta che gli passano di fronte nella lenta ed eterna processione, durante la quale le ferite hanno modo di rimarginarsi;

  • X bolgia: ha una circonferenza di ventidue miglia e dal suo fondo si levano dei lamenti e un fetore di membra putrefatte. I dannati, ossia i falsari, sono coloro che hanno deliberatamente agito contro la natura e la verità, con sostituzioni di materia, di persone e di parole. Coloro che hanno falsificato la persona devono correre in preda a mania furiosa e addentano i compagni di sventura; coloro che hanno falsificato la moneta restano sempre immobili, colpiti dall'idropisia che li deforma, con il ventre ingigantito; coloro che hanno falsificato la parola sono arsi da febbre così alta che il loro corpo emana vapore e ripugnante puzza di unto bruciato.

- POZZO DEI GIGANTI;

I giganti sono personaggi mitologici che osarono scalare l'Olimpo sfidando la divinità e pretendendo il suo potere. Dotati di intelligenza, volontà e di una corporatura smisurata, stanno infissi dall'ombelico in giù ed emergono dal fondo del pozzo centrale come torri immani. Sono costretti all'immobilità assoluta. Quest'ultima, unita al silenzio, colpisce non solo l'immensa forza fisica, ma anche la superbia, che è una sorta di dismisura spirituale.


- IX cerchio;



  • I zona (Caina): è una landa ricoperta di ghiaccio. I dannati, ossia i traditori dei parenti, sono coloro che ingannarono e provocarono danni ai loro parenti, venendo meno alla loro lealtà. Ora sono immersi nel ghiaccio e piangono, tenendo il viso basso;

  • II zona (Antenora): è una landa ricoperta di ghiaccio. I dannati, ossia i traditori della patria, sono coloro che in vita ingannarono e provocarono danni alla patria, venendo meno alla loro lealtà. Ora sono immersi immersi nel ghiaccio e sono costretti a tenere il viso rivolto in alto in modo che le lacrime, subito condensate dal vento, impediscano agli occhi di mantenersi aperti;

  • III zona (Tolomea): è una landa ricoperta di ghiaccio. Qui giacciono i traditori degli degli ospiti, coloro che in vita ingannarono e provocaono danni gli ospiti, venendo meno alla loro lealtà. Ora sono conficcati nel ghiaccio in posizione supina, in modo che le lacrime ristagnino e formino un indurimento immediato, che impedisca l'uscita delle altre lacrime, le quali, non trovando sbocco, si riversano all'interno e aggravano il dolore;

  • IV zona (Giudecca): è una landa ricoperta di ghiaccio. Qui giacciono i traditori dei benefattori, coloro che in vita ingannarono e provocarono danni a persone e istituzioni a cui era affidata la felicià e la salvezza del genere umano.

- Natural Burella.

BACHECA DEI PERSONAGGI
[In ordine secondo i canti]

Virgilio
Caronte
Omero
Orazio
Ovidio
Lucano
Elettra
Ettore
Cesare
Pentesilea
Lavinia
Saladino
Aristotele
Socrate
Platone
Democrito
Diogene
Cornelia
Bruto
Anassagora
Talete
Empedocle
Eraclito
Zenone
Dioscoride
Orfeo
Cicerone
Seneca
Euclide
Tolomeo
Ippocrate
Avicenna
Galeno
Averroè
Minosse
Francesca da Rimini
Paolo Malatesta
Semiramide
Didone
Cleopatra
Elena di Troia
Achille
Paride
Tristano
Cerbero
Ciacco
Pluto
Flegiàs
Filippo Argenti
La Furia Megera
La Furia Aletto
La Furia Tesifone
Medusa
Farinata degli Uberti
Cavalcante de' Cavalcanti
Federico II
Ottaviano degli Ubaldini
Anastasio II
Nesso
Chirone
Alessandro Magno
Dionigi di Siracusa
Ezzelino da Romano
Obizzo d'Este
Guido di Montfort
Attila
Pirro
Sesto Pompeo
Rinieri da Corneto
Rinieri de' Pazzi
Pier della Vigna
Lano da Siena
Iacopo da Sant'Andrea
Capaneo
Brunetto Latini
Prisciano
Francesco d'Accorso
Andrea de' Mozzi
Iacopo Rusticucci
Guido Guerra
Tegghiaio Aldobrandi
Guglielmo Borsiere
Gerione
Giasone
Taide
Venedico Caccianemico
Alessio Interminelli
Niccolò III
Malacoda
Scarmiglione
Alichino
Calcabrina
Cagnazzo
Barbariccia
Libicocco
Draghignazzo
Graffiacane
Farfarello
Rubicante
L'anzian di Santa Zita
Ciampolo
frate Gomita
Michele Zanche
Loderingo degli Andalò
Caifa
Vanni Fucci
Francesco Cavalcanti
Agnolo Brunelleschi
Cianfa Donati
Buoso Donati
Caco
Ulisse
Diomede
Guido da Montefeltro
Maometto
Pier da Medicina
Bertran de Born
Curione
Griffolino d'Arezzo
Capocchio
Geri del Bello
Mastro Adamo
Sinone
Capocchio

Gianni Schicchi
Mirra
Nembrot
Anteo
Fialte
Briareo
Tizio
Camicione de' Pazzi
Bocca degli Abati
Alessandro degli Alberti
Napoleone degli Alberti
Sassolo Mascheroni
Buoso da Duera
Tesauro dei Beccheria
Gianni de' Soldanieri
Gano di Maganza
Ugolino della Gherardesca
Ruggieri degli Ubaldini
Conte Ugolino
Frate Alberigo
Branca Doria
Lucifero
Giuda
Bruto
Cassio

martedì 17 marzo 2009

Struttura Purgatorio e bacheca dei personaggi


- Paradiso Terrestre;
è una foresta lussureggiante di prati, fiori e alberi, lungo le sponde del fiume Letè, nel quale chi si immerge dimentica tutte le cattive azioni compiute in vita.
- VII cornice;
dalla parte della cornice si sprigiona una fiamma che occupa quasi tutto lo spazio, lasciando solo uno stretto passaggio sul bordo.
I penitenti, ossia i lussuriosi, camminano tra le fiamme e ricordano il loro peccato piangendo ed elevando a Dio l'inno Summae Deus Clementiae, contenente un'invocazione contro la lussuria. Manifestano poi il loro pentimento gridando esempi di lussuria punita e di castità premiata; sono divisi in due schiere, eterosessuali e omosessuali, equando si incontrano si baciano fraternamente in silenzio. Le fiamme in cui essi giacciono rappresentano le fiamme della smodata passione fisica.
- VI cornice;
sulla cornice si ergono due strani alberi a forma di abete rovesciato, dai frutti dolci e profumati. Dalla parete di roccia sgorga un'acqua limpida che si spande sulla foglie.
Le anime dei golosi, che giacciono su questa cornice, si abbandonarono in vita al piacere del bere e del mangiare. Ora passano, magri come non mai, sotto gli abeti carichi di frutti e affianco alla limpida acqua, senza poter toccar nulla, soffrendo così la fame e la sete. Tra i due abeti si ode una voce che pronuncia esempi di temperanza e di gola punita.
- V cornice;
i penitenti, gli avari e i prodighi, giacciono con il viso rivolto a terra, con le mani e i piedi legati, e piangendo recitano il versetto del salmo 118: "L'anima mia è attaccata alla terra". Di giorno gridano esempi di generosità e di povertà, di notte esempi del loro vizio di cupidigia.
- IV cornice;
i penitenti, ossia gli accidiosi, sono le anime di coloro che in vita hanno esercitato con poco vigore gli istinti naturali e virtuosi dell'amore e della castità. Ora devono correre frettolosamente per la cornice, gridando esempi di sollecitudine e di accidia punita.
- III cornice;
l'intera cornice è invasa da una nube spessa di fumo nero.
I penitenti, ossia gli iracondi, sono coloro che in vita hanno ceduto con eccesso agli istinti dell'ira. Come in vita si lasciarono accecare e soffocare da quest'ultima, ora sono avvolti in un fumo denso che li soffoca e li acceca. Hanno visioni estatiche che rappresentano esempi di mansuetudine e di ira punita.
- II cornice;
la ripa e la via sono di pietra liscia.
I penitenti, ossia gli invidiosi, sono spiriti che guardarono con malevolenza la felicità altrui. Ora sono coperti di cilicio e hanno gli occhi cuciti con un filo di ferro. Stanno seduti con le spalle pogiate contro la parete del monte e si reggono a vicenda. Ascoltano esempi di carità premiata e di invidia punita gridati da voci invisibili, e recitano le litanie dei santi.
- I cornice;
è una cornice uniforme e larga tre volte il corpo umano. Ha la parete e il pavimento di marmo candido.
I penitenti, ossia i superbi, avanzano curvi, portanto pesanti massi sulle spalle. Con lo sguardo chino vedono, effigiati al suolo, esempi di superbia punita, e se storcono gli occhi vedono sulla parete della roccia bassorilievi che rappresentano esempi di umiltà esaltata.
- Porta del Purgatorio;
- IV schiera di negligenti (Antipurgatorio);
i penitenti, ossia i cosidetti principi, sono le anime dei principi e dei regnanti che in vita si allontanarono dalle cure spirituali, dando maggiore importanza alla cura dello Stato e alla gloria mondana, oppure si dimostrarono indolenti nell'esercizio delle loro funzion per il bene dei sudditi. Ora sono raccolti in una valletta amena e siedono su un prato verdissimo, pieno di fiori profumati e variopinti. Devono restare fuori dal Purgatorio tanto tempo quanto vissero e ogni giorno, al tramonto, sono sottoposti alla tentazione del serpente.
- III schiera di negligenti (Antipurgatorio);
i penitenti, ossia i morti per violenza, sono coloro che hanno subito l'omicidio e hanno atteso il momento estremo della loro vita per pentirsi. Devono attendere nell'Antipurgatorio per un tempo pari alla loro vita; camminano lentamente, come in processione, cantando in coro il Miserere.
- II schiera di negligenti (Antipurgatorio);
i penitenti, ossia i pigri, sono coloro che attesero la fine della loro vita per riavvicinarsi a Dio. Stanno seduti all'ombra di grandi macigni e sono esclusi dal Purgatorio per un tempo pari alla loro vita.
- I schiera di negligenti (spiaggia dell'Antipurgatorio);
la spiaggia circonda l'isola sulla quale si erge la montagna del Purgatorio, solitaria nell'immenso oceano ed esattamente opposta a Gerusalemme.
I penitenti, ossia i morti scomunicati, avanzano lentamente e devono attendere trenta volte il tempo che vissero in stato di scomunica prima di iniziare la purgazione.

BACHECA DEI PERSONAGGI
[In ordine secondo i canti]

Virgilio

Struttura Paradiso e bacheca dei personaggi


- Dio (Empireo; nove cerchi di cori angelici);
è un cielo costituito di pura luce intellettuale e di amore spirituale, senza limitazioni fisiche e di spazio. Le anime dei santi si dispongono sui diversi gradini dell'anfiteatro celeste, detto la "Rosa dei beati". Su di loro discende la luce di Dio.
- IX cielo: Primo Mobile o Cristallino;
- VIII cielo: Stelle Fisse;
i beati, ossia gli spiriti trionfanti, si uniscono a formare dei cerchi che danzano e girano intorno al loro centro, con velocità diverse a seconda del grado di beatitudine. Essi celebrano il trionfo della Vergine invocandola e cantandone le lodi. La cima della loro fiamma si protende verso l'alto come per seguirla quando essa si eleva a raggiungere Cristo.
- VII cielo: Saturno;
si presenta come un cristallo nel quale scende dall'alto una scala d'oro che si eleva tanto da non vedere la cima.
I beati, ossia gli spiriti contemplativi, sono le anime sante di coloro che dedicarono la loro vita alla meditazione e al raccoglimento in Dio. Si presentano come splendori intensi, che discendono insieme lungo la scala; giunti ad un certo gradino, essi si sciolgono in un volo sfavillante, poi alcuni ritornano verso l'alto, altri si fermano nuovament sulla scala.
- VI cielo: Giove;
si presenta come un cielo più ampio e di colore bianco, quasi argentato.
I beati, ossia gli spiriti giusti, si presentano come numerosi numi di luce intensa e dorata, che volano nel cielo prima formando le lettere di una frase biblica sulla giustizia, poi una "M" gotica e infine la testa di un'aquila.
- V cielo: Marte;
il cielo risplende di un rosso ardente e infuocato, attraversati da due raggi di luce intensissima posti a croce su cui lampeggia la figura di Cristo.
I beati, ossia gli spiriti combattenti per la fede, sono le anime di coloro che, come i martiri e i crociati, scesero fisicamente in campo per affermare e far trionfare la fede cristiana. Si presentano come dei lumi che, compatti, formano nel cielo l'immagine di una croce e si muovono lungo le due braccia di essa. Quando si incontrano, cantano in modo così dolce e sublime che le parole risultano incomprensibili all'udito umano.
- IV cielo: Sole;
Il cielo è una sfera che riluce in modo particolare per l'astro che in essa ha sede.
I beati, ossia gli spiriti sapienti, si presentano come splendori ardenti che costellano il cielo.
- III cielo: Venere;
è una sfera luminosa che si fa più splendente nell'accogliere Beatrice.
I beati, ossia gli spiriti amanti, sono le anime di coloro in cui in vita eccelse la virtù dell'amore, limitata però da una passione eccessiva per i beni del corpo. Si presentano come splendori che danzano e cantano, con diversa velocità a seconda del grado di beatitudine.
- II cielo: Mercurio;
si presenta come una sfera luminosa che si fa più splendente nell'accogliere Beatrice.
I beati, ossia gli spiriti attivi per la gloria terrena, sono le anime di coloro che in vita operarono il bene per ottenere fama personale sulla terra. Si presentano come innumerevoli splendori che cantano e danzano ricolmi di gioia.
- I cielo: Luna;
l'atmosfera di questo cielo si presenta come una nube luminosa, densa, compatta e senza macchie, simile a un diamante scolpito dal sole.
I beati, ossia gli spiriti mancanti ai voti, sono le anime di coloro che, per violenza subita, non portarono a termine l'impegno preso nei confronti di Dio con i voti religiosi. Si presentano come ombre chiare, simili a immagini riflesse sullo specchio, che conservano ancora le fattezze terrene, trasfigurate dalla beatitudine celeste.

BACHECA DEI PERSONAGGI
[In ordine rispetto ai canti]

Beatrice
Piccarda Donati
Giustiniano
Romeo di Villanova
Carlo Martello
Cunizza da Romano
Folchetto da Marsiglia
Raab
Tommaso d'Aquino
Alberto Magno
Francesco Graziano
Pietro Lombardo
Salomone
Dionigi l'Areopagita
Paolo Orosio
Severino Boezio
Isidoro di Siviglia
Beda il venerabile
Riccardo di San Vittore
Sigieri di Brabante
San Francesco
Bonaventura da Bagnoregio
San Domenico
Ugo di San Vittore
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Riassunti: Inferno: Canti da I a XVI

CANTO I
Luogo: selva oscura
Smarrita la via della giustizia e del bene, Dante si ritrova nella selva oscura del peccato. Dopo il turbamento iniziale, la prima luce dell’alba gli indica la cima di un colle che egli cerca di raggiungere per trovare scampo dalle tenebre, ma, mentre faticosamente ne sale le pendici, viene ostacolato da tre animali selvatici: prima una lonza e poi un leone gli sbarrano la strada, infine una lupa lo costringe a retrocedere verso la valle. All’improvviso appare l’ombra del poeta latino Virgilio, al quale Dante chiede aiuto contro la lupa che gli preclude la via alla sommità del colle. Virgilio depreca la natura e l’operato della lupa, simbolo della cupidigia che solo il veltro, emblema di un imperatore a venire, riuscirà a sconfiggere e a eliminare da ogni città d’Italia e dell’impero. Egli quindi assicura a Dante che gli sarà guida verso il colle della salvezza, ma lo condurrà per una via più difficile che attraversa l’Inferno e il Purgatorio; da qui Dante potrà proseguire il viaggio per il Paradiso fino all’Empireo con l’aiuto di un’anima più degna di lui (che, non avendo conosciuto in vita il cristianesimo, non può aspirare alla città divina). Dante lo segue.
CANTO II
Luogo: il colle
Al momento di iniziare il racconto del viaggio nell’oltretomba, racconto non meno difficile di quanto fu il viaggio stesso, Dante invoca l’aiuto delle muse perché sostengano lo sforzo della narrazione. La discesa agli inferi con la guida di Virgilio inizia al calar del giorno, e l’ora del tramonto rinnova in Dante le paure e insieme gli fa sorgere un dubbio: la visione dei regni dell’oltretomba fu concessa soltanto a Enea e a san Paolo in virtù dei loro meriti e delle missioni a loro affidate, ovvero la fondazione di Roma e dell’impero per l’uno, il consolidamento della fede cristiana per l’altro; perché allora concedere un’analoga possibilità proprio a lui, certo non altrettanto degno? e chi lo permette? Dante arriva a temere che il viaggio sia follia, frutto di presunzione e di superbia. Virgilio lo rassicura, e gli spiega di essere stato inviato in suo aiuto da Beatrice, scesa nel limbo per ordine di santa Lucia, a sua volta interprete del desiderio della stessa Maria, madre di Dio. L’esortazione del poeta libera Dante dalla paura e dalla viltà, e lo risolve ad affrontare il cammino.
CANTO III
Luogo: Antinferno: ignavi
La porta d’ingresso dell’Inferno reca un’iscrizione con parole terribili di dannazione e di dolore, ma, nella più fitta oscurità, sono i lamenti dei dannati del vestibolo infernale a muovere Dante alle lacrime: la prima schiera che incontra è quella degli ignavi, i pusillanimi che per paura non seppero seguire il bene e che per viltà neppure perseguirono il male. Senza essere propriamente dannati, come contrappasso per la scelta fra bene e male che rifiutarono di fare in vita sono ora costretti a inseguire freneticamente un’insegna, mentre degli insetti pungono i loro corpi nudi e dei vermi bevono il loro sangue misto alle lacrime. Sono così spregevoli che Virgilio invita Dante a non occuparsene, e questi, benché ne riconosca alcuni, evita persino di nominarli. Quindi i due raggiungono il fiume Acheronte, dove una folla di anime attende il passaggio all’altra riva; Caronte, il traghettatore, intima a Dante di allontanarsi dato che è destinato a un altro regno ultraterreno, ma si placa non appena Virgilio indica nella volontà divina il motivo della sua presenza. Infine, la terra è scossa da un terribile terremoto e Dante perde conoscenza.
CANTO IV
Luogo: I cerchio: Limbo: anime giuste non battezzate (spiriti magni)
Riprendendo i sensi, Dante si ritrova nel primo cerchio dell’Inferno, il limbo, dove dimorano le anime di coloro che morirono prima di ricevere il battesimo o che vissero prima dell’era cristiana e che quindi, benché non siano prive di meriti, non possono aspirare alla salvezza. Fra questi si trovavano anche i patriarchi dell’Antico Testamento prima che Cristo, subito dopo la resurrezione, venisse a liberarli per condurli con sé nell’Empireo. Da una zona di luce che interrompe le tenebre si fanno avanti le anime di Omero, Orazio, Ovidio e Lucano per accogliere con tutti gli onori il loro compagno Virgilio, e Dante si accoda, nella finzione narrativa e nella legittimazione letteraria, alla compagnia dei poeti. I sei passano insieme in rassegna gli spiriti magni dell’antichità, i poeti, i filosofi e gli eroi che si distinsero per le loro opere e che nel limbo occupano un luogo privilegiato, un castello difeso da sette cinte murarie; quindi Dante e Virgilio riprendono il viaggio.
CANTO V
Luogo: II cerchio: lussuriosi
All’entrata del secondo cerchio Minosse accoglie i peccatori e, dopo averli costretti a confessare le loro colpe, indica loro la punizione divina avvolgendosi la coda intorno al corpo un numero di volte corrispondente al numero del girone infernale al quale li invia. Dopo che Virgilio ha superato la resistenza del giudice infernale al passaggio di Dante grazie a un nuovo richiamo alla volontà divina, ai due si offre la vista della bufera che travolge i lussuriosi, fra i quali si riconoscono alcuni protagonisti della storia e della letteratura classica e medievale. Per soddisfare la curiosità di Dante, dalla schiera dei peccatori si staccano due anime, Francesca da Polenta e Paolo Malatesta: le parole di Francesca che narrano dell’adulterio e della morte violenta dei due commuovono Dante al punto di fargli perdere i sensi.
CANTO VI
Luogo: III cerchio: golosi
Al risveglio Dante si ritrova nel terzo cerchio, dove i dannati per il peccato di gola giacciono prostrati da una pioggia scura, mista di grandine e neve, e vengono dilaniati da Cerbero, un mostruoso cane a tre teste con elementi umani. Non appena Virgilio ha placato la ferocia del custode dandogli in pasto una manciata di terra, un dannato si leva a sedere e richiama l’attenzione di Dante, dicendogli di essere fiorentino e di chiamarsi Ciacco. Alle domande di Dante sul futuro di Firenze, sulla situazione presente e sulle cause della discordia attuale, Ciacco risponde profetizzando un primo, effimero, successo dei guelfi bianchi seguito entro breve tempo da una più duratura vittoria della parte nera; quindi il dannato esprime un severo giudizio sulla condizione morale della città e indica nei vizi l’origine delle contese. Infine, dopo aver dato notizie sul destino ultramondano di eminenti personaggi fiorentini, Ciacco ricade a terra. Quindi Dante e Virgilio riprendono il cammino e, parlando della sorte dei dannati dopo il giudizio universale, arrivano sul ciglio del quarto cerchio, dove li attende Pluto.
CANTO VII
Luogo: IV cerhcio: avari e prodighi -
V cerchio: iracondi e accidiosi
Per placare l’ira di Pluto il custode del cerchio che cerca di intimorirli pronunciando parole misteriose, Virgilio invoca ancora una volta la volontà divina che permette a Dante, persona viva, di attraversare il regno dei morti. Lungo il perimetro del quarto cerchio si fronteggiano due schiere di dannati, i prodighi e gli avari, che spingono con il petto dei massi enormi e si rinfacciano gli opposti peccati. In risposta a una domanda di Dante, Virgilio illustra la natura e le funzioni della Fortuna, forza preposta da Dio alla ripartizione dei beni materiali fra gli uomini, e contro le cui disposizioni peccano sia i prodighi, sia gli avari. Quindi i due scendono nel quinto cerchio, invaso dal fiume Stige entro le cui acque paludose si dibattono le anime degli iracondi, dilaniandosi a vicenda; completamente sommersi nel fango giacciono invece gli accidiosi, rivelati solo dal ribollire dell’acqua in superficie.
CANTO VIII
Luogo: V cerchio: iracondi e accidiosi -
mura della città di Dite
Costeggiando la riva dello Stige Dante e Virgilio giungono ai piedi di una torre dalla cui sommità partono segnali luminosi. Questi si rivelano essere avvisi di richiamo per Flegiàs, il traghettatore infernale che, reprimendo l’ira, accetta i due sulla sua barca. Durante la navigazione uno degli iracondi puniti nella palude si rivolge con arroganza a Dante: è il fiorentino Filippo Argenti che, dopo un breve scambio di battute ingiuriose, tenta di assalire la barca ma viene ricacciato da Virgilio nel fango dove è straziato dagli altri dannati. Infine la barca approda davanti alle mura della città di Dite, rosseggiante per il fuoco, protetta da uno stuolo di diavoli che impediscono a Dante e a Virgilio l’ingresso nel basso Inferno. Neppure le parole di Virgilio riescono a persuadere i diavoli a piegarsi alla volontà divina: di fronte alla loro ostilità e allo sconforto della sua guida Dante è preso dal terrore, anche se Virgilio lo rassicura e gli preannuncia l’arrivo di qualcuno in grado di aiutarli.
CANTO IX
Luogo: mura della città di Dite -
VI cerchio: eretici
L’attesa davanti alle mura di Dite si protrae, e il terrore di Dante aumenta a causa di una frase lasciata sospesa da Virgilio: questi cerca di confortarlo, raccontandogli di una sua precedente discesa nel basso Inferno che lo ha reso esperto dei luoghi e dei comportamenti dei suoi abitatori. Dall’alto di una torre si mostrano le tre furie, Megera, Tesifone e Aletto, che minacciano l’arrivo di Medusa, figura mitologica capace di trasformare in pietra chiunque la guardi: per evitare questo rischio a Dante, Virgilio lo fa girare e gli copre gli occhi. Finalmente giunge il messo celeste ad aprire la porta del basso Inferno e a umiliare la superbia dei diavoli. Dante e Virgilio entrano quindi nel sesto cerchio, una vasta pianura disseminata di tombe scoperchiate e infuocate: nei sarcofagi giacciono gli eretici, distinti nelle varie sette, e più o meno torturati dal calore del fuoco secondo la gravità della loro eresia.
CANTO X
Luogo: VI cerchio: eretici
Procedendo fra le mura e i sarcofagi, Dante manifesta il desiderio di incontrare qualcuno degli eretici condannati nelle tombe ora scoperchiate, destinate a essere chiuse solo il giorno del giudizio, e occupate in questa zona dagli epicurei, negatori dell’immortalità dell’anima. Improvvisamente un dannato si solleva e si rivolge a Dante, che ha riconosciuto essere suo concittadino: è Farinata degli Uberti, il celebre esponente della parte ghibellina che dopo la vittoria di Montaperti (1260) si oppose alla distruzione di Firenze voluta dagli altri capi filo-imperiali. Farinata interroga Dante sulle sue origini familiari e, dichiarata la militanza guelfa degli Alighieri, i due si scambiano accese battute sulla superiore capacità dell’una parte e dell’altra. La disputa politica è interrotta da un altro dannato, il fiorentino Cavalcante Cavalcanti che si leva dalla tomba per domandare a Dante notizie del figlio Guido, poeta e suo "primo amico": fraintendendone la risposta l’eretico si convince della morte del figlio e ricade nella tomba. Senza prestare attenzione al dolore di Cavalcante, Farinata riprende il discorso interrotto, profetizzando il futuro esilio di Dante. La preveggenza di Farinata e l’ignoranza del presente dimostrata da Cavalcante offrono l’occasione per un chiarimento sulla conoscenza dei dannati, limitata al futuro e destinata a essere annullata dal giudizio universale. Dante e Virgilio riprendono il cammino verso la riva interna del girone.
CANTO XI
Luogo: VI cerchio: eretici
Sulla riva rocciosa che separa il sesto dal settimo cerchio, Dante e Virgilio sostano presso la tomba del papa eretico Anastasio II per abituarsi al puzzo che proviene dall’abisso infernale. Virgilio illustra l’ordinamento morale del basso Inferno, dove i dannati sono divisi secondo la radice malvagia delle loro colpe in violenti (nei tre gironi del settimo cerchio), fraudolenti contro chi non si fida (nelle dieci Malebolge dell’ottavo cerchio), fraudolenti contro chi si fida (nelle quattro regioni del nono cerchio). Rispondendo alle domande di Dante, Virgilio spiega perché i peccati di incontinenza siano puniti fuori dalla città di Dite e chiarisce come l’usura sia colpa contro Dio e per questo gli usurai si trovino fra i violenti. Ormai sulla terra mancano poco più di due ore all’alba: Virgilio esorta l’allievo a riprendere il viaggio.
CANTO XII
Luogo: VII cerchio: I girone: violenti contro il prossimo
Mentre scendono lungo l’argine franato in seguito al terremoto che seguì la morte di Cristo, Dante e Virgilio incappano nel Minotauro, che giace a guardia del settimo cerchio e tenta inutilmente di ostacolarli. Il girone è occupato da un fiume di sangue bollente, il Flegetonte, nel quale i violenti contro il prossimo giacciono immersi a profondità diverse e proporzionali alle loro colpe. A loro guardia sono preposti i centauri, armati di frecce e capeggiati da Chirone che, dopo aver cercato di impedire il passaggio ai due, cede alla richiesta di Virgilio e ordina a Nesso di accompagnarli oltre il guado: durante il tragitto il centauro indica a Dante alcuni celebri tiranni, omicidi e predoni, e gli nomina i più feroci che non sono visibili perché completamente sommersi dal sangue bollente.
CANTO XIII
Luogo: VII cerchio: II girone: violenti contro se stessi
Dante e Virgilio si inoltrano nel fitto bosco che occupa il secondo girone del settimo cerchio: fra gli arbusti secchi e gli alberi spogli risuonano i lamenti sinistri delle Arpie, uccelli dal volto umano. Su invito di Virgilio, Dante spezza un ramo da un pruno: insieme al sangue esce la voce lamentosa di Pier della Vigna, funzionario prediletto dell’imperatore Federico II, che racconta la sua vicenda, indicando nell’ingiusta accusa di tradimento il motivo che lo portò al suicidio. Quindi spiega come le anime dei suicidi siano trasformate negli alberi della selva, straziati dalle Arpie, e preannuncia che il giorno del giudizio i dannati non si rivestiranno del corpo di cui si privarono volontariamente, ma lo appenderanno ciascuno al proprio albero. Improvvisamente compaiono due dannati, colpevoli di aver distrutto i propri averi, inseguiti da un branco di cani affamati che riescono a raggiungerne e a dilaniarne uno. Dante e Virgilio si avvicinano al cespuglio devastato dallo scialacquatore nel tentativo di nascondersi ai cani: dagli sterpi esce la voce e il racconto di un suicida fiorentino, negatore di sé al punto di rimanere anonimo.
CANTO IV
Luogo: VII cerchio: III girone: violenti contro Dio, la natura e l'arte
Dopo aver ricomposto gli sterpi dell’anonimo suicida, Dante e Virgilio escono dalla selva, e giungono al limitare del terzo girone del settimo cerchio, costituito da un deserto di sabbia arroventato dalla pioggia di fuoco. Qui gli spiriti dei violenti sono divisi in tre schiere: chi giace a terra supino, chi seduto, chi corre sul sabbione senza sosta. Nel primo gruppo, quello dei violenti contro Dio, i due incontrano Capaneo, uno dei sette re greci alla guerra contro Tebe, che continua a mostrare lo stesso comportamento superbo e blasfemo che lo caratterizzò in vita. Costeggiando il deserto, Dante e Virgilio raggiungono un ruscello di sangue, un rivolo del Flegetonte, i cui argini non sono lambiti dalla pioggia infuocata e possono quindi fornire a Dante una via praticabile per attraversare il deserto. Virgilio sfrutta l’occasione per illustrare la geografia dei tre fiumi infernali, l’Acheronte, lo Stige e il Flegetonte, e del Lete, il quarto fiume originato dalle lacrime che sgorgano dalle fessure del Veglio di Creta, statua d’oro, d’argento, di rame e di ferro, ma con il piede destro d’argilla.
CANTO XV
Luogo: VII cerchio: III girone: violenti contro Dio, la natura e l'arte
Sempre camminando sull’argine di pietra del ruscello di sangue, Dante e Virgilio si inoltrano nel settimo cerchio: viene loro incontro correndo un gruppo di sodomiti, violenti contro natura. Uno di essi, con grande stupore, riconosce Dante e ne richiama l’attenzione: Dante incontra così il suo maestro Brunetto Latini, uomo politico e intellettuale fiorentino, che, per parlare qualche istante con l’antico allievo, abbandona la schiera dei compagni di pena. Brunetto loda il discepolo e, dopo avergli predetto l’ostilità dei concittadini, attacca duramente il comportamento morale e politico delle fazioni fiorentine ed esorta Dante a non curarsi della cattiva sorte, tanto è l’onore che le sue qualità gli riservano. Quindi gli indica altri sodomiti, come lui tutti intellettuali e letterati illustri; infine, non prima di avergli affidato l’eredità morale della sua opera più significativa, il Tresor, si allontana di corsa per raggiungere la schiera con la quale è punito e per non essere raggiunto da un altro gruppo di dannati che avanza.
CANTO XVI
Luogo: VII cerchio: III girone: violenti contro Dio, la natura e l'arte
Dalla nuova schiera di sodomiti che si avvicina si distaccano tre personaggi che, continuando a correre, si dispongono in cerchio ai piedi dell’argine sul quale Dante si è fermato: sono Guido Guerra, Tegghiaio Aldobrandi e Jacopo Rusticucci, celebri esponenti della parte guelfa fiorentina intorno alla metà del Duecento, verso i quali Dante mostra grande rispetto e della cui sorte aveva già domandato a Ciacco. Certi di aver incontrato un concittadino, i tre chiedono notizie sullo stato presente di Firenze: Dante risponde loro con una dura invettiva sulla decadenza della città, originata dalla superbia e dall’avarizia dei nuovi ceti dirigenti. Dopo il commiato dai tre fiorentini, Dante e Virgilio riprendono il cammino, giungendo fino al burrone nel quale precipita a cascata il Flegetonte: qui Virgilio getta nel vuoto la corda che cingeva i fianchi dell’allievo e rimane in attesa di un misterioso arrivo. Dopo poco, con movimenti simili al nuoto delle rane, dal fondo dell’abisso emerge Gerione, il custode delle bolge dei fraudolenti.

Riassunti: Inferno: Canti da XVII a XXXIV

CANTO XVII
Luogo: VII cerchio: III girone: violenti contro Dio, la natura e l'arte
Richiamato dalla corda lanciata da Virgilio, dall’abisso emerge Gerione, mostro alato con coda di serpente, volto umano e corpo variopinto come un tappeto. Gerione si posa sull’orlo roccioso del burrone, a poca distanza da Dante e Virgilio, che si mettono in cammino sul bordo del baratro per raggiungerlo. Fatti pochi passi i due scorgono il terzo gruppo di peccatori puniti sul sabbione: sono gli usurai, violenti contro la natura e l’arte umana, rannicchiati come cani sulla sabbia, sfigurati e irriconoscibili nel volto, ma individuati da un sacchetto appeso al collo sul quale è dipinto lo stemma familiare di ciascun dannato. Dante non può riconoscere nessun usuraio, tanto questi sono deturpati dalla pioggia infuocata e resi simili ad animali, ma è in grado di individuare tre membri di note famiglie fiorentine e un padovano. Quindi Dante raggiunge Virgilio che è già in groppa a Gerione, e non senza timore sale anch’egli sull’animale, che si leva in volo scendendo nel baratro con larghi giri, fino a posarsi sul fondo dove lascia scendere i passeggeri per poi ripartire veloce come una freccia.
CANTO XVIII
Luogo: VIII cerchio: I bolgia: seduttori -
II bolgia: adulatori
Gerione ha lasciato scendere Dante e Virgilio all’ingresso dell’ottavo cerchio, detto Malebolge perché suddiviso in dieci fossati concentrici - le bolge appunto - collegati da ponticelli di roccia: il luogo è tutto dominato dal colore ferrigno della pietra e al centro termina in un profondo pozzo. Nella prima bolgia i dannati sono divisi nelle due schiere dei ruffiani e dei seduttori, che procedono ordinatamente in senso opposto come fanno sul ponte Angelico a Roma i pellegrini durante il Giubileo; camminando sull’argine Dante può riconoscere fra i ruffiani il bolognese Venedico Caccianemico, che brevemente gli espone la sua colpa. Dal ponte è possibile vedere in volto anche i dannati dell’altra schiera, fra i quali Virgilio indica Giasone, capo degli Argonauti e seduttore di Isifile e Medea. Nella seconda bolgia gli adulatori sono immersi nello sterco: qui Dante riconosce il lucchese Alessio Interminelli e, grazie al suggerimento di Virgilio, può vedere Taide, prostituta della commedia classica, mentre si graffia con le unghie lorde.
CANTO XIX
Luogo: VIII cerchio: III bolgia: simoniaci
Dal ponte sulla terza bolgia Dante osserva il fondo, tutto disseminato di fori nella pietra tondi e larghi quanto i bacili battesimali di San Giovanni a Firenze: nei fori sono infilati a testa in giù gli ecclesiastici che fecero commercio dei beni sacri, i simoniaci, di cui spuntano solo le gambe, che guizzano e scalciano a causa del fuoco appiccato alle piante dei piedi. Per poter parlare con un dannato Dante e Virgilio scendono nella bolgia, e si accostano al foro dove è conficcato papa Niccolò III, che spiega un iniziale equivoco con il fatto che è in attesa dell’arrivo di papa Bonifacio VIII prima, e poi di Clemente V, che prenderanno il suo posto spingendolo in profondità fra le fessure della roccia. Dante replica con una dura condanna della degenerazione della chiesa, che per avarizia ha abbandonato gli insegnamenti evangelici e si è dedicata alla cupida venerazione del denaro. Quindi, per risalire la riva del fossato, Virgilio prende Dante in braccio e lo porta sull’argine della quarta bolgia.
CANTO XX
Luogo: VIII cerchio: IV bolgia: maghi e indovini
Nella quarta bolgia il contrappasso punisce la presunzione umana di divinare il futuro: gli indovini hanno la testa e il collo girati al contrario, così che, non potendo guardare avanti, sono costretti a camminare all’indietro procedendo lentamente e bagnando di lacrime il dorso. Anche Dante non trattiene il pianto alla vista della figura umana così deturpata, ma è aspramente rimproverato della sua immotivata compassione di fronte alla giustizia divina; quindi Virgilio gli mostra i maghi e gli indovini dell’antichità, Tiresia, Arunte, e Manto che gli offre il modo di narrare l’origine della città di Mantova. Su richiesta di Dante, la guida indica altri indovini, Euripilo, Michele Scotto, Guido Bonatti e Asdente, solo accennando a maghe e fattucchiere. Infine, Virgilio esorta l’allievo a riprendere il cammino, perché la luna sta per tramontare sotto Siviglia e quindi sulla terra sono circa le sei del mattino.
CANTO XXI
Luogo: VIII cerchio: V bolgia: barattieri
Dante e Virgilio sono sul ponte che attraversa la quinta bolgia, colma di pece bollente entro la quale sono immersi, invisibili, i barattieri. Improvvisamente appare sul ponte un diavolo che porta sulla spalla un dannato: gettandolo nella pece, fa sapere ai suoi compagni e ai due spettatori che si tratta di uno degli Anziani di Lucca, città ricca di pubblici amministratori che si arricchiscono vendendo per denaro le prerogative concesse ai loro uffici. Il lucchese cerca di liberarsi dalla pece, emergendo alla superficie, ma i diavoli preposti alla custodia dei dannati minacciano di straziarlo con i loro uncini se non si terrà ben nascosto entro la pece. Dopo aver fatto nascondere Dante, Virgilio arriva sul sesto argine per trattare con i diavoli che nel frattempo sono sbucati dalla loro tana sotto il ponte: dal capo Malacoda ottiene l’assicurazione all’incolumità sua e del suo allievo, che quindi richiama dal nascondiglio. Malacoda offre ai due una scorta di dieci diavoli fino al prossimo passaggio per la bolgia successiva, dato che il sesto ponte è crollato a seguito del terremoto concomitante alla morte di Cristo. Il diavolo mescola verità e menzogna, perché il terremoto ha fatto crollare tutti i ponti e non esiste nessun passaggio praticabile sulla sesta bolgia. Costretti a malincuore ad accettare l’offerta, Dante e Virgilio si incamminano sull’argine in compagnia della minacciosa e tragicomica scorta.
CANTO XXII
Luogo: VIII cerchio: V bolgia: barattieri
Con la scorta dei dieci diavoli Virgilio e Dante procedono lungo l’argine cercando di riconoscere qualche barattiere. Il diavolo Graffiacane afferra con l’uncino un peccatore emerso per cercare ristoro dalla pece e lo tira su, nero come una lontra: mentre i diavoli se lo contendono, Ciampolo di Navarra cerca di prendere tempo parlando di sé a Dante e indicandogli altri due compagni di pena, frate Gomita di Gallura e Michele Zanche di Logudoro. Infine, messo alle strette dai suoi aguzzini, Ciampolo propone un patto: se si allontaneranno un po’, lui farà emergere sette dei suoi compagni richiamandoli con un fischio convenzionale e i diavoli potranno esercitare i loro uncini anche su di loro. Dopo qualche esitazione e minaccia, il navarrese è lasciato libero e ne approfitta per rituffarsi e scomparire nella pece: i diavoli Alichino e Calcabrina, non riuscendo ad afferrarlo, si azzuffano fra di loro e finiscono anch’essi nella pece. Mentre Barbariccia e altri diavoli cercano di ripescare i loro compagni, Dante e Virgilio si allontanano.
CANTO XXIII
Luogo: VIII cerchio: VI bolgia: ipocriti
Per paura che i dieci diavoli, beffati da Ciampolo e umiliati dal tuffo nella pece, possano inseguirli e attentare alla loro incolumità, Virgilio corre precipitosamente verso la sesta bolgia portando Dante in braccio come fa una madre con il figlio: non appena in salvo, i due vedono comparire sull’argine i diavoli, ormai inoffensivi perché incapaci di allontanarsi dal fossato a cui li ha ordinati la giustizia divina. La nuova bolgia è affollata dagli ipocriti, che camminano lentamente sotto il peso di cappe di piombo, esternamente dorate. Mentre i due procedono camminando sul fondo della bolgia, un dannato riconosce Dante dalla sua parlata toscana e lo invita a fermarsi con lui e il suo compagno di pena: i due ipocriti sono i bolognesi Catalano dei Malavolti e Loderingo degli Andalò, fondatori dell’ordine dei Cavalieri di Maria (detti popolarmente frati Godenti), che insieme furono podestà a Firenze. Crocifisso al suolo della bolgia c’è Caifas, che sconta così, insieme agli altri membri del Sinedrio, la condanna a morte di Cristo. Infine Virgilio domanda a Catalano di indicargli la via per la risalita: scopre così che tutti i ponti sulla bolgia sono franati, e che il diavolo Malacoda gli ha mentito.
CANTO XXIV
Luogo: VIII cerchio: VII bolgia: ladri
Dante e Virgilio giungono alla rovina del ponte crollato, tanto erta da essere impraticabile al vivo; dopo l’iniziale turbamento della guida e di riflesso anche dell’allievo per la difficoltà della risalita, Virgilio esorta Dante e lo aiuta nell’impresa che infine, dopo molta fatica e qualche rischio, li conduce sull’argine della settima bolgia. Dal nuovo fossato si leva una voce incomprensibile: dato che l’oscurità non permette di vedere dal ponte quello che succede sul fondo, i due scendono nella bolgia. Il luogo è infestato da ogni tipo di serpenti, con i quali sono legate dietro la schiena le mani dei peccatori, i ladri. Uno di questi, trafitto fra il collo e le spalle da una serpe, viene incenerito all’istante, ma, subito dopo, riprende sembianze umane risorgendo dalle sue ceneri come l’araba fenice. A compiere la metamorfosi è il pistoiese Vanni Fucci, ladro sacrilego, che, per vendicarsi della curiosità di Dante, gli profetizza l’ascesa dei guelfi neri a Firenze e la rovinosa sconfitta della parte bianca a Pistoia.
CANTO XXV
Luogo: VIII cerchio: VII bolgia: ladri
Terminata la profezia, Vanni Fucci rivolge a Dio un gesto osceno di sfida, ma la sua superbia viene immediatamente punita dai serpenti che lo avvolgono fino a bloccarne i movimenti e le parole. Dante commenta l’intero episodio rivolgendo una dura invettiva contro Pistoia. Quindi compare Caco, il centauro colpevole del furto degli armenti di Ercole, con il dorso ricoperto di bisce. Lo seguono tre ladri, due dei quali subiscono metamorfosi: il primo si fonde con un serpente a sei piedi che lo ha avvinghiato come edera all’albero, formando una sola mostruosa creatura, il secondo si trasforma in serpe dopo essere stato trafitto da un serpentello che, contemporaneamente, diventa uomo. Nell’unico ladro che ha mantenuto il suo aspetto umano Dante riconosce Puccio Sciancato e nel serpente trasformato in uomo Francesco dei Cavalcanti, fiorentini come tutti gli altri protagonisti di queste metamorfosi.
CANTO XXVI
Luogo: VIII cerchio: VIII bolgia: consiglieri fraudolenti
Dante trasforma il suo sdegno per i tanti fiorentini incontrati all’Inferno in un’aspra invettiva contro la sua città, per la quale pronostica le sciagure che le augurano tutti i comuni toscani sottomessi al suo dominio. Quindi Dante e Virgilio risalgono il dirupo, fino a raggiungere l’argine da dove è visibile l’ottava bolgia. Il fossato è disseminato di fiamme in movimento, simili a lucciole in una sera d’estate, e ciascuna di esse custodisce un peccatore, colpevole di un aver suggerito e consigliato una frode. Restando sulla sommità del ponte, Dante nota una fiamma biforcuta ed esprime il desiderio di sapere chi cela; dopo aver saputo che vi sono puniti insieme Ulisse e Diomede, corresponsabili sia dell’inganno del cavallo che permise ai greci di espugnare Troia sia del furto fraudolento della statua di Pallade, prega la sua guida di far avvicinare la fiamma. Virgilio acconsente al desiderio, ma riserva a sé il compito di interrogarla: dalla lingua di fuoco Ulisse gli parla della sua sete di conoscenza del mondo e degli uomini, che lo condusse a lasciare la patria per intrapprendere un viaggio oltre le Colonne d’Ercole. Sfidando i divieti divini, Ulisse con un ristretto gruppo di compagni giunse in mare aperto: ma, ormai in vista della montagna del Purgatorio, un turbine inabissò la loro nave prima che potessero raggiungere la meta del loro desiderio di sapere.
CANTO XXVII
Luogo: VIII cerchio: VIII bolgia: consiglieri fraudolenti
Non appena la fiamma che nasconde Ulisse smette di crepitare, da un’altra esce una voce dapprima confusa ma poi distinta e comprensibile quando si rivolge a Virgilio, che ha riconosciuto essere lombardo, per chiedere notizie della situazione politica in Romagna. Di fronte al nuovo peccatore, questa volta italiano,Virgilio cede la risposta a Dante, che descrive la condizione romagnola come un continuo susseguirsi di guerre fra i tiranni che dominano la regione, e illustra la geografia delle varie signorie cittadine all’anno 1300. Il dannato, credendo di parlare con un dannato che mai tornerà nel mondo a divulgare ciò che sente e vede, racconta di essere Guido da Montefeltro, da conte divenuto frate francescano per fare ammenda delle sue azioni di frode e d’inganno: ma neppure gli ordini riuscirono a proteggerlo, dato che il papa Bonifacio VIII lo indusse a peccare nuovamente promettendogli un’impossibile assoluzione anticipata in cambio di un consiglio fraudolento. Terminata la sua confessione, Dante e Virgilio si rimettono in cammino fino a giungere sul ponte della nona bolgia, nella quale sono puniti i seminatori di discordie.
CANTO XXVIII
Luogo: VIII cerchio: IX bolgia: seminatori di scismi e discordie
Nella nona bolgia il contrappasso punisce chi seminò discordie e provocò scismi, con squartamenti, mutilazioni e ferite ancor più sanguinose di quelle provocate dalle guerre più cruente della storia. Un diavolo è preposto alla punizione, che è tanto più spettacolare e orribile quanto più grave fu la colpa del dannato: fra questi Dante incontra Maometto con le interiora e l’intestino che gli penzolano da uno squarcio fra il mento e l’inguine, e suo genero Alì con il volto spaccato dal mento alla fronte. Dopo aver saputo da Virgilio che Dante è vivo, il profeta dell’islamismo gli raccomanda di avvertire lo scismatico fra Dolcino dell’assedio in cui lo stringerà il vescovo di Novara, affinché possa prepararsi e ritardare il proprio arrivo nella nona bolgia. Anche il romagnolo Pier da Medicina, con la gola squarciata e privo del naso e di un orecchio, affida a Dante un messaggio per due eminenti cittadini di Fano, preannunciando un prossimo tradimento del signore di Rimini, città che costò cara a un altro dannato, il tribuno Curione che spinse Cesare contro Pompeo e ora porta la lingua mozzata in gola. Quindi il fiorentino Mosca dei Lamberti con le mani mozzate chiede di essere ricordato come colui che diede inizio alle faide fra guelfi e ghibellini. Infine si presenta il trovatore Bertran de Born che, per aver istigato il re Enrico III a ribellarsi al padre, ora è smembrato egli stesso e porta in mano la propria testa come fosse un lume.
CANTO XXIX
Luogo: VIII cerchio: IX bolgia: seminatori di scismi e discordie -
X bolgia: falsari
Dante è sconvolto dallo spettacolo cruento della nona bolgia, e solo al rimprovero di Virgilio e all’esortazione a riprendere il viaggio dichiara la ragione del suo indugio: egli crede di aver riconosciuto un suo parente fra i seminatori di discordia, il fiorentino Geri del Bello, disdegnoso verso di lui a causa della morte violenta non ancora vendicata dai congiunti. Quindi Dante e Virgilio raggiungono il ponte sulla decima e ultima bolgia dove, per l’oscurità, possono solo sentire il puzzo e i lamenti dei dannati; una volta scesi nel fossato lo vedono occupato dai falsari che giacciono stipati come in un ospedale, colpiti dalle più ripugnanti malattie. Fra i dannati i due incontrano Griffolino d’Arezzo e Capocchio da Siena, appoggiati l’uno alle spalle dell’altro e intenti a grattarsi le croste della scabbia che li punisce per aver falsificato i metalli praticando l’alchimia. Dante commenta l’episodio lamentando la vanità dei senesi, confermata anche da Capocchio che elenca ironicamente alcuni suoi concittadini famosi per la loro vita dissipata.
CANTO XXX
Luogo: VIII cerchio: X bolgia: falsari
Improvvisamente compaiono due anime, pazze di furore: l’una si avventa su Capocchio da Siena, e azzannandolo al collo lo trascina, l’altra su Griffolino. Ma prima di essere sbranato, l’aretino rivela a Dante l’identità e il peccato dei due: sono il fiorentino Gianni Schicchi e Mirra, che si finsero un’altra persona per ottenere favori da un testamento l’uno, l’altra per commettere adulterio con il padre. Quindi a Dante appare un dannato, con il ventre rigonfio per l’idropisia, che confessa di essere maestro Adamo, e di aver falsificato il fiorino di Firenze su incarico dei conti Guidi da Romena, nel Casentino. Su invito di Dante, maestro Adamo denuncia l’identità di due suoi compagni di pena che sembrano fumare per la febbre: l’una è la moglie di Putifarre che accusò ingiustamente Giuseppe, l’altro falsario di parola è il greco Sinone che, fingendosi amico, convinse i troiani a far entrare il cavallo dell’inganno in città. Sinone reagisce alla denuncia di maestro Adamo, e i due danno vita a una rissa fatta di tragicomici colpi e di reciproche accuse. Dante rimane intento a seguire la lite fino a che non lo distolgono i rimproveri di Virgilio per aver dimostrato tanto volgare interesse.
CANTO XXXI
Luogo: pozzo dei giganti
Dante e Virgilio lasciano Malebolge, e, superato l’ultimo argine roccioso, si ritrovano immersi nel crepuscolo e odono un suono di corno più terribile di quello lanciato da Orlando a Roncisvalle. Per la scarsa luce Dante crede di vedere le torri di una città che sono invece, gli spiega Virgilio, giganti conficcati attorno al pozzo dalla vita in giù: via via che si avvicinano diminuisce l’errore e aumenta la paura di Dante. Giunti ai margini del pozzo Virgilio mostra al suo allievo Nembrot, il gigante responsabile della costruzione della torre di Babele, reso ora incapace di parlare una lingua comprensibile, poi Fialte che sfidò Giove tentando di scalare l’Olimpo e ora è incatenato in modo da non potersi muovere, mentre Briareo, di cui Dante ha chiesto notizie, è immobilizzato più lontano e non è visibile. Accanto a Nembrot è conficcato Anteo, il gigante ucciso da Ercole, libero da catene perché non prese parte alla rivolta contro Giove: dopo averlo blandito, Virgilio gli chiede di trasportarlo sul fondo del pozzo. Anteo non può opporsi alla richiesta, quindi distende la mano e afferra Virgilio, che a sua volta stringe a sé Dante; infine depone i due sulla distesa ghiacciata di Cocito.
CANTO XXXII
Luogo: IX cerchio: I zona: traditori dei parenti -
II zona: taditori della patria
Dante e Virgilio sono deposti dal gigante Anteo nel nono cerchio, sulla distesa ghiacciata del fiume Cocito, nella quale sono conficcati i traditori, lividi e tremanti per il freddo. Nella prima zona, detta Caina, sono puniti i traditori dei congiunti, conficcati nel ghiaccio fino alla cintola e con i visi rivolti a terra: fra questi peccatori Dante vede uniti insieme dal gelo i fratelli Napoleone e Alessandro dei conti Alberti, che ancora si dimostrano ira reciproca; quindi Camicione dei Pazzi gli indica altri traditori di parenti, Mordret che attentò alla vita di re Artù, il pistoiese Focaccia dei Cancellieri e il fiorentino Sassolo Mascheroni. Dante e Virgilio si spostano nella seconda regione di Cocito, Antenora, dove sono puniti i traditori della patria, infissi nel ghiaccio fino al volto: Dante inavvertitamente colpisce con il piede un peccatore che, nonostante le minacce del vivo, si rifiuta di dichiarare la sua identità. Viene però smascherato da un compagno di pena: è il guelfo Bocca degli Abati, che durante la battaglia di Montaperti tradì la sua parte e ne causò la sconfitta, per poi goderne i vantaggi passando ai ghibellini. Per vendicarsi Bocca rivela l’identità di chi lo ha appena denunciato, il cremonese Buoso da Duera che tradì Manfredi per il denaro degli Angiò, e fa il nome di altri suoi compagni di pena, il pavese Tesauro dei Beccaria, il fiorentino Gianni dei Sodanieri, Gano di Maganza e Tebaldello Zambrasi, ricordando il tradimento di ognuno. Infine due peccatori conficcati insieme nel ghiaccio attirano l’attenzione di Dante, che domanda la ragione per cui l’uno è intento a rodere il cranio dell’altro.
CANTO XXXIII
Luogo: IX cerchio: II zona: traditori della patria -
III zona: traditori degli ospiti
l peccatore intento a rodere il cranio del compagno narra la sua storia e illustra i motivi del suo gesto bestiale: è il conte Ugolino della Gherardesca, podestà di Pisa dopo la sconfitta della Meloria (1284), accusato di essersi accordato con la parte guelfa e di aver ceduto dei castelli di proprietà comunale ai rivali lucchesi, per questo imprigionato insieme ai suoi quattro figli nella torre della fame dall’arcivescovo ghibellino Ruggieri degli Ubaldini, di cui ora si ciba per l’eternità. Il racconto di Ugolino è dettagliato solo riguardo alla prigionia e alla morte per fame dei suoi figli, preceduta dall’offerta al padre di cibarsi di loro. Dante commenta il racconto con una dura invettiva contro Pisa, novella Tebe, carnefice anche dei figli innocenti. Quindi con Virgilio entra in Tolomea, la terza regione di Cocito, dove giacciono supini i traditori degli ospiti, le cui lacrime ghiacciate formano una visiera sugli occhi. Dante avverte la presenza di un vento di cui chiede ragione a Virgilio, ma la guida rimanda la risposta a quando la causa sarà visibile. Con una promessa che poi non mantiene, Dante induce a parlare il frate godente Alberigo dei Manfredi, che spiega come le anime dei traditori degli ospiti vengano mandate in Tolomea ancor prima della morte dei corpi, nei quali vengono sostituite da un demonio: l’esempio è fornito dal suo compagno di dannazione, il genovese Branca Doria assassino del suocero Michele Zanche, che al momento della finzione narrativa era ancora vivo. Il canto si chiude con una dura invettiva contro i genovesi.
CANTO XXXIV
Luogo: IX cerchio: IV zona: traditori dei benefattori
Dante e Virgilio arrivano nell’ultima regione di Cocito e dell’intero Inferno, nella Giudecca dove sono puniti i traditori dei benefattori, che giacciono in quattro posizioni diverse ma sono tutti irriconoscibili perché completamente inglobati nel ghiaccio. Al centro della distesa è conficcato fino alla cintola Lucifero, imperatore infernale, tanto bello prima del tradimento quanto mostruoso ora: ha tre facce, una giallognola, una rossa e una nera, e sei ali di pipistrello che sbattendo danno origine ai tre venti infernali che gelano Cocito e che avevano in precedenza suscitato la curiosità di Dante. Nelle tre bocche di Lucifero sono martoriati i tre maggiori traditori, di Dio e dell’impero: Giuda Iscariota al centro, visibile solo per le gambe che dimena, ai lati Bruto e Cassio che penzolano all’esterno con la testa. Quindi Dante si stringe a Virgilio che al momento oppurtuno si aggrappa al corpo peloso di Lucifero e inizia la discesa; arrivati alle anche del re infernale i due si capovolgono, e continuano l’arrampicata questa volta risalendo, tanto che Dante crede di ritornare all’Inferno. Invece i due si ritrovano a percorrere un passaggio nella roccia: Dante chiede spiegazioni, e scopre così di aver passato il centro della terra al momento del cambio di posizione durante la discesa e di stare ora risalendo verso l’emisfero occupato dalle acque, dove è giorno quando sull’altro è notte, e dove si trova la montagna del Purgatorio. Da questa parte cadde Lucifero, fino a conficcarsi al centro del globo, a testa in giù rispetto all’eden. Infine Virgilio e Dante, guidati dal suono di un ruscello, escono all’aria aperta.

Riassunti: Purgatorio: Canti da I a XVIII

CANTO I
Luogo: Antipurgatorio: spiaggia
All’invocazione alle Muse, che occupa i primi dodici versi del canto, segue la ripresa del racconto: è l’alba del quarto giorno dall’inizio del viaggio e Dante, la cui vista è finalmente allietata, dopo lo spettacolo dell’"aura" infernale, dall’azzurro terso dell’aria, scorge prima il pianeta Venere e poi "quattro stelle", rappresentative, secondo i commentatori, delle virtù cardinali. Quand’ecco che il poeta vede il primo personaggio del Purgatorio, il "veglio solo" Catone l’Uticense, custode del secondo regno. Egli apostrofa Dante e Virgilio chiedendo loro come abbiano potuto sfuggire all’Inferno e se ciò sia accaduto perché le leggi sono cambiate oppure perché in cielo è stato fissato un nuovo decreto. Virgilio allora gli spiega brevemente le ragioni del loro arrivo, invitandolo ad accettare di buon grado la presenza di Dante, facendo a tal fine leva sulla vicenda personale di Catone, suicida per la libertà. Ma le lusinghe della memoria non possono toccare quell’anima, che scompare all’improvviso, dopo avere esortato Dante a compiere il rito di purificazione sulla spiaggia dell’isola purgatoriale. Giunti sul lido, davanti allo spettacolo del "tremolar della marina", Virgilio deterge il volto di Dante della caligine infernale e infine lo cinge del giunco, simbolo di umiltà.
CANTO II
Luogo: Antipurgatorio: spiaggia
Dante e Virgilio si trovano ancora sulla riva del mare quando vedono approdare sul lido una piccola imbarcazione a bordo della quale si trovano l’Angelo nocchiero e le anime degli espiandi che in coro intonano il salmo In exitu Israel). Dopo aver ricevuto la benedizione dell’Angelo, gli spiriti scendono sulla spiaggia, e ignari della strada da prendere per raggiungere la montagna del Purgatorio, chiedono informazioni ai due poeti. Virgilio risponde loro confessando di essere anch’egli inesperto del luogo. A quel punto, le anime si rendono conto che Dante è ancora vivo e la loro meraviglia è tale che per guardar lui dimenticano quasi di andarsi a purificare. Una di loro si fa avanti e pochi versi dopo apprendiamo che si tratta di Casella, il musico, amico di Dante. Quest’ultimo si mostra stupito di trovarlo in quel luogo e in quel momento, dato che molto tempo è ormai passato dalla morte di costui. Il dubbio del poeta non sarà sciolto che parzialmente dalle parole di Casella, il quale ricorda che è alle foci del Tevere che si raccolgono le anime destinate al Purgatorio. Dante che prima lo aveva pregato di fermarsi a parlare con lui adesso gli chiede di consolare il suo spirito con il canto, come faceva un tempo. Casella intona allora un testo dello stesso Dante, la canzone Amor che ne la mente mi ragiona, e la dolcezza del suo canto ammalia tutti, Virgilio compreso, distogliendoli dal loro dovere. A scuoterli dall’oblio interviene Catone, riapparso all’improvviso, che rimprovera la loro negligenza e incita le anime all’espiazione: esse allora, simili a colombe spaventate, fuggono verso il pendio del monte. E i due poeti riprendono il cammino.
CANTO III
Luogo: Antipurgatorio: I schiera: negligenti: morti scomunicati
Dante si accorge che il rimprovero di Catone ha turbato la coscienza di Virgilio. Colpito dai raggi solari, vede solo la sua ombra proiettarsi a terra ed è colto dal terrore, ma volgendosi di lato è confortato dalla vista della sua guida che gli spiega per quale motivo le anime siano prive dell’ombra. Segue, sempre per bocca di Virgilio, un’altra celebre esortazione: l’uomo si accontenti di quanto gli è concesso capire, poiché conoscere le cause ultime delle cose, e quindi Dio, gli è precluso. Poi, di nuovo turbato, il poeta latino tace. Intanto i due sono arrivati ai piedi della montagna, ma la parete è così scoscesa che lo stesso Virgilio appare in difficoltà. Ecco allora che Dante scorge una schiera di anime che avanzano lentamente: i due poeti si fanno loro incontro, ma esse, spaventate, si stringono tutte alla parete del monte, guardando perplesse i pellegrini. Virgilio chiede come sia possibile salire sul versante del pendio. Come accade in un gregge di pecorelle, l’avanguardia di quella schiera si fa avanti, per ritrarsi però subito, alla vista dell’ombra di Dante. Rassicurata dal poeta latino, un’anima si rivolge a Dante per dichiarare poco dopo di essere Manfredi, figlio di Federico II: e racconta la sua storia. Con una sua preghiera si conclude il canto: lo Svevo chiede a Dante di rivelare alla figlia Costanza la sua condizione.
CANTO IV
Luogo: Antipurgatorio: II schiera: negligenti: pigri
Tutto intento ad ascoltare Manfredi, Dante non si è reso conto dello scorrere del tempo: le anime lo riportano però alla realtà indicando ai due poeti la direzione da prendere per salire. Il sentiero è stretto e scosceso, tanto da richiedere oltre all’uso dei piedi, l’ausilio delle mani. Dante segue Virgilio, camminandogli carponi dietro, fino a che entrambi, lasciatosi sotto il balzo scosceso e raggiunto un pianoro, si siedono. Dante si stupisce che il sole li colpisca da sinistra e Virgilio gliene dà spiegazione. A un tratto si ode un’apostrofe proveniente da un grande macigno ove è raccolto un gran numero di anime. Sono gli spiriti dei negligenti, cioè di coloro che hanno tardato a pentirsi fino all’ultimo istante di vita. Uno di loro, standosene seduto con le braccia avvinte alle ginocchia, colpisce l’attenzione di Dante, che finisce per riconoscere in lui il liutaio fiorentino Belacqua, noto per la sua pigrizia. Lo scambio di battute tra i due è interrotto da Virgilio che sollecita Dante a riprendere il cammino: è già il tramonto di quel primo giorno nel secondo regno.
CANTO V
Luogo: Antipurgatorio: III schiera: negligenti: morti per violenza
Dante, rimasto ad ascoltare i commenti di un’anima circa la sua ombra, è rimproverato da Virgilio. Ripreso dunque il cammino, i due poeti incontrano una terza schiera di anime che canta il Miserere: alla vista dell’ombra di Dante due spiriti chiedono di essere informati sulle ragioni della presenza in quel luogo dei due pellegrini. Virgilio, come spesso accadrà, spiega che Dante è vivo e li esorta a usargli cortesia. I due, allora, tornano indietro. Dalla schiera esce una voce che chiede a Dante se abbia riconosciuto qualcuno e subito dopo rende conto della sua condizione e di quella delle anime che con lei si trovano in quel luogo del Purgatorio. Veniamo così a sapere che lì sostano i morti violentemente e i pentiti in fin di vita. Dante confessa di non aver visto nessuno di sua conoscenza, ma si impegna comunque a esaudire le loro richieste una volta tornato nel mondo dei vivi. Comincia a questo punto il discorso di Iacopo del Cassero fatto uccidere da Azzo d’Este, cui segue quello di Buonconte di Montefeltro, morto nella battaglia di Campaldino. Il canto si chiude con le brevi, accorate parole della senese Pia dei Tolomei, fatta uccidere dal marito.
CANTO VI
Luogo: Antipurgatorio: III schiera: negligenti: morti per violenza
Il canto si apre con la similitudine tra i giocatori del gioco della zara e Dante che, nella folla dei negligenti, è attirato ora da uno spirito ora dall’altro. Dopo l’elenco delle anime che il poeta vede e riconosce (Benincasa da Laterina, Guccio dei Tarlati, Federigo Novello, Gano Scornigiani, Orso degli Alberti, Pier da la Broccia), egli manifesta a Virgilio il dubbio circa l’effettiva efficacia delle preghiere dei vivi a favore delle anime dei penitenti. Sciolto il dubbio, l’attenzione di Dante è indirizzata dallo stesso Virgilio su un’anima solitaria. Si tratta del poeta Sordello vissuto nella seconda metà del Duecento tra l’Italia e la Provenza e autore di testi in lingua d’oc. L’incontro con quest’anima dà l’occasione a Dante per una lunga digressione, che occupa tutta la seconda parte del canto, circa la situazione politica dell’Italia: ne esce tracciato un quadro fosco e cupo, in cui la penisola appare abbandonata a se stessa, priva di una guida temporale, piagata in ogni lembo di terra da conflitti tra fazioni. La tirata polemica colpisce in ultimo proprio Firenze, cui Dante si rivolge con sferzante ironia, accusando la patria di essere avida, irrispettosa delle leggi e sconsiderata.
CANTO VII
Luogo: Antipurgatorio: IV schiera: negligenti: principi
La prima parte del canto è occupata dal dialogo tra Sordello e Virgilio: il poeta latino, riconosciuto solo adesso dal poeta volgare, parla brevemente della sua condizione di anima relegata nel Limbo per poi chiedere informazioni circa il modo per raggiungere più rapidamente possibile il Purgatorio vero e proprio. Sordello allora consiglia ai due poeti di fermarsi un poco a conversare presso un gruppo di anime che si trovano in un luogo appartato, poco distante da lì, dal momento che sta sopraggiungendo la notte, le cui tenebre impediscono a chiunque di salire. Virgilio accoglie la proposta del mantovano e poco dopo si trova con Dante in una specie di valle, ornata da fiori di mille colori diversi: gli spiriti che qui dimorano cantano il Salve Regina e sono le anime dei principi e dei sovrani, anch’essi puniti per la loro negligenza. Vengono quindi additati da Sordello ai due poeti, come in una sorta di catalogo, Rodolfo imperatore d’Asburgo, Ottocaro re di Boemia, Filippo III re di Francia, Enrico I re di Navarra, Pietro III re d’Aragona, Carlo I d’Angiò re di Napoli e Sicilia, Alfonso III re d’Aragona, Arrigo III re d’Inghilterra, Guglielmo VII marchese di Monferrato. Le figure sfilano, l’una di seguito all’altra, e per ciascuna di esse, Dante non manca di fornire, pur nella massima sinteticità, informazioni circa la loro vita, i loro avi e finanche i loro successori.
CANTO VIII
Luogo: Antipurgatorio: IV schiera: negligenti: principi
Al calar del giorno, una delle anime che si trovano nella valletta dei principi chiede alle altre attenzione e silenzio: al che, intona la preghiera della compieta, il Te lucis ante terminum, richiesta di aiuto a Dio contro le tentazioni della notte. Tutte, allora, si uniscono a lei un canto soave, nell’ascolto del quale Dante si immerge profondamente. Segue un appello del poeta al lettore perché interpreti correttamente - cioè in senso allegorico e non in modo semplicistico - gli eventi che verranno descritti. Due angeli con due spade infuocate, ma prive delle punte, dalle ali e dalle vesti di color verde, scendono sulle anime: la loro chioma è bionda, ma il volto è talmente luminoso che a mala pena può essere scorto. Sordello, dopo aver spiegato che essi vengono dall’Empireo a proteggere la valle dall’imminente avvento del serpente, invita Dante a parlare con le anime che ivi dimorano. Avviene allora l’incontro tra Dante e il giudice Nino Visconti, al termine del quale lo sguardo di Dante è attratto dalla vista di tre stelle, simbolo delle tre virtù teologali. Subito dopo compare, strisciando tra l’erba e i fiori, l’annunciato serpente, tempestivamente messo in fuga dai due angeli. Sventato il pericolo, Dante si mette a parlare con una seconda anima, quella di Corrado Malaspina che prima di congedarsi profetizza al poeta il suo futuro soggiorno in Lunigiana presso la sua famiglia.
CANTO IX
Luogo: Porta del Purgatorio
L’alba del nuovo giorno sorprende Dante immerso nel sonno, mentre si trova ancora nella valletta dei principi. In sogno gli appare un’aquila dalle ali d’oro e gli sembra che essa, dopo averlo ghermito, prenda fuoco. Spaventato dalla visione il poeta si sveglia bruscamente, ma viene subito confortato dalla vista di Virgilio, il quale lo informa che sono finalmente giunti all’ingresso del Purgatorio e che è stata Lucia - simbolo della Giustizia e quindi apparsa a Dante come aquila - a portarlo dalla valletta alla soglia del secondo regno. Si legge a questo punto un secondo appello al lettore che viene avvisato, analogamente a quanto Dante ha già fatto nel canto ottavo, che la materia della sua poesia si va innalzando sempre più e che pertanto essa richiede sempre maggiore concentrazione. I due pellegrini giungono quindi alla porta del Purgatorio cui si accede salendo tre scalini di tre colori diversi (il primo di marmo bianco, il secondo di una pietra quasi nera, il terzo di porfido rosso): la porta è custodita da un angelo che impugna una spada e che, seduto sulla soglia (che a Dante sembra di diamante) poggia i piedi sul gradino più alto. Costui interroga Virgilio su chi li abbia condotti fin lì e il poeta latino risponde che loro guida è stata Lucia. All’umile richiesta di Dante di poter varcare quella soglia, il guardiano celeste inscrive prima sulla fronte del poeta sette P - tante quante i peccati di cui egli via via andrà purificandosi - per aprire poi con due chiavi la porta sacra. Al cigolare dei cardini, si sovrappone un altro rumore, simile a quello prodotto dall’esecuzione di un canto accompagnato dall’organo.
CANTO X
Luogo: I cornice: superbi
Dante e Virgilio si trovano ora nel primo girone del Purgatorio, ove si trovano le anime che espiano il peccato di superbia. Dopo aver percorso un sentiero intagliato nella roccia, i due poeti si trovano in un pianoro deserto. Dante si accorge allora che lo zoccolo della parete della montagna è ornato di bassorilievi: il primo di essi rappresenta la scena dell’Annunciazione (vi sono raffigurati l’arcangelo Gabriele e Maria), il secondo quella del trasferimento dell’Arca e della danza del salmista David, il terzo, infine, l’aneddoto dell’imperatore Traiano e della vedova che chiede giustizia per il figlio morto. Appaiono a questo punto le anime degli espiandi: a punizione della loro superbia, ciascuna di esse è gravata da pesanti massi e si percuote il petto in segno di pentimento. La descrizione di queste immagini è seguita dall’apostrofe, improvvisa e severa, che Dante lancia a tutti i superbi e che poi altro non è che una riflessione sulla vanità delle aspirazioni umane. Il canto si chiude con la precisazione che ogni anima porta un peso diverso, commisurato all’entità del suo peccato e che sul volto di chi più è schiacciato si legge la supplica e la confessione di non poter resistere ancora a lungo.
CANTO XI
Luogo: I cornice: superbi
Il canto si apre con il Pater noster recitato in coro dalla schiera dei superbi e al termine della preghiera Virgilio chiede alle anime quale sia il modo più veloce e più semplice per salire al girone superiore: una di esse, dopo aver soddisfatto la richiesta del poeta, comincia a narrare la propria storia presentandosi come Omberto Aldobrandeschi. Al tacere di costui Dante si china nel tentativo di riconoscere qualcuno e apostrofato da un’anima riconosce in essa l’amico di un tempo, il famoso miniatore Oderisi da Gubbio: costui ribadisce la pochezza e la transitorietà della fama ricordando come la sua arte sia già stata offuscata da quella di Franco, quella di Cimabue dalla pittura di Giotto e come Guinizzelli, ottenuto il primato sul Cavalcanti, stia già per esserne privato da un altro poeta. La rinomanza terrena, dice Oderisi, altro non è, se commisurata allo scorrere dei millenni, che un alito di vento ed effimera come il colore dell’erba, e non ha importanza, rispetto all’eternità, se un uomo muore vecchio oppure ancora bambino. A questo punto il miniatore indica a Dante lo spirito del senese Provenzan Salvani, famoso un tempo e di cui ora a fatica si ricorda il nome. Il poeta, che presume che nessuno preghi per quell’anima e che Provenzano si sia pentito in extremis, chiede perché egli non si trovi nell’Antipurgatorio. Oderisi gli narra allora come Provenzano, dimessi orgoglio e superbia, avesse rinunciato a tutti i suoi beni per salvare un amico: sarebbe stato dunque premiato per questo gesto. Poi Oderisi smette di parlare, annunciando in modo sibillino a Dante il suo imminente esilio.
CANTO XII
Luogo: I cornice: superbi
Dante cammina a fianco di Oderisi finché Virgilio non lo esorta ad andare avanti e ad abbassare lo sguardo a terra: il poeta si accorge allora che il pavimento della cornice del primo girone è istoriato delle immagini di esempi celebri di superbia punita, immagini che, per la perfezione della tecnica pittorica, suscitano in Dante grande ammirazione. Esse rappresentano, in sequenza, i casi di Lucifero, di Briareo, dei Giganti sterminati a Flegra, di Nembrot, Niobe, Saul, Aracne, Roboam, Erifile, Sennacherib, Ciro e Tamiri, Oloferne, e infine di Troia. Ma il tempo incalza (è già passato mezzogiorno) e Virgilio richiama l’attenzione del poeta su un angelo vestito di bianco e sfolgorante di luce. Dopo aver aperto le braccia e dispiegato le ali, l’angelo invita i due pellegrini a salire, tramite una gradinata stretta e incavata nella roccia, al secondo girone, quello degli invidiosi. Durante l’ascesa Dante avverte una sensazione di leggerezza e Virgilio, interrogato in merito, gli spiega come essa sia destinata ad aumentare dal momento che, salendo, egli si libererà via via dai sette peccati simbolicamente inscritti quali "P" sulla sua fronte: il poeta allora sente con le dita che in effetti di esse ne rimangono solo sei.
CANTO XIII
Luogo: II cornice: invidosi
Giunti alla sommità della gradinata, Dante e Virgilio si trovano nel secondo girone, ove si espia la colpa dell’invidia. Esso è di circonferenza inferiore rispetto al primo e non vi compaiono né bassorilievi né disegni. Al termine dell’invocazione di Virgilio al sole, i due poeti vedono venirsi incontro volando alcuni spiriti che, senza fermarsi, pronunciano, ciascuno, frasi diverse. Il primo allude all’episodio delle nozze di Cana, il secondo si presenta come Oreste, un terzo infine parafrasa un versetto di Matteo: sono, secondo la spiegazione di Virgilio, in quanto esempi di umiltà, moniti contro il peccato dell’invidia. Sedute lungo la parete rocciosa, Dante vede poi delle anime coperte di mantelli di panno ruvido e dello stesso colore livido della pietra, l’una appoggiata all’altra e tutte alla roccia, simili ai ciechi seduti vicino alle chiese a chiedere l’elemosina. Esse hanno inoltre le palpebre cucite con un fil di ferro. Il poeta, commosso da quella vista, si rivolge agli espiandi chiedendo se tra loro vi sia qualche italiano. Una gli risponde e comincia così il dialogo tra il poeta e la senese Sapia, zia di Provenzano Salvani e ascesa in Purgatorio grazie alle preghiere del francescano Pier Pettinaio: il canto si chiude con una profezia di quello spirito circa alcune fallimentari iniziative intraprese dalla sua città.
CANTO XIV
Luogo: II cornice: invidiosi
Siamo ancora nel girone degli invidiosi. Due spiriti (quelli di Guido del Duca e di Rinieri da Calboli) chiedono a Dante chi sia e da dove venga e il poeta, sorvolando sul suo nome, indica la sua patria alludendo alla zona in cui essa si trova (la Val d’Arno) con una perifrasi. Essa è l’occasione per una lunga tirata polemica, pronunciata da Guido, contro le città bagnate dall’Arno nella sua corsa fino al mare, quali anche Arezzo, Firenze e Pisa. A conclusione dell’invettiva lo spirito lancia strali violenti contro Fulcieri da Calboli, nipote di Rinieri. Dante allora, incuriosito, ottiene un racconto dettagliato circa la terra e la vita delle due anime: chi parla è però ancora e solo Guido, per il quale ricordare il passato della propria regione (la Romagna) è fonte di amarezza e di pianto. Al brusco congedarsi di costui da Dante, i due poeti sentono per la seconda volta voci senza volto pronunciare motti relativi a casi famosi di invidia punita (in questo caso si allude a Caino e a Aglauro); Virgilio spiega allora che quelle frasi sono gli ammonimenti divini contro l’invidia che trascina l’uomo lontano da Dio, verso beni illusori.
CANTO XV
Luogo: scala alla III cornice -
III cornice: iracondi
Sono le tre del pomeriggio, e i due poeti si trovano ancora nel secondo girone, quando Dante viene colpito da una luce abbagliante che lo costringe a schermarsi il volto con la mano per poterne sostenere la vista. Tale fulgore promana dall’angelo disceso a indicare loro il modo per poter salire al terzo girone, quello degli iracondi. Durante l’ascesa Dante espone alla sua guida un dubbio, nato in lui ascoltando le parole di Guido del Duca. Ma la risposta di Virgilio è causa nella mente di Dante di un ulteriore interrogativo: allora Virgilio, dopo una spiegazione parziale, lo esorta a purificarsi dei peccati in attesa di essere illuminato dalle parole di Beatrice. Nel frattempo essi sono arrivati nel terzo girone e subito a Dante appaiono tre visioni: quella di Gesù giovinetto al tempio, quella della clemenza di Pisistrato e quella della lapidazione di Santo Stefano. Virgilio che sa perfettamente in quali spettacoli sia immersa la mente di Dante, lo sprona a proseguire il cammino poiché si sta facendo sera. L’immagine conclusiva del canto è quella dei due poeti avvolti in una cortina di fumo nero e quindi impossibilitati a vedere alcunché.
CANTO XVI
Luogo: III cornice: iracondi
Immersi nel fumo del terzo girone, Dante e Virgilio sentono, pur senza vederle, le anime intonare l’Agnus Dei. E da Virgilio apprendiamo che esse espiano in quel luogo la colpa dell’iracondia. Una di loro, a un tratto, apostrofa Dante: si tratta di Marco Lombardo, noto uomo di corte del Duecento, integerrimo e disprezzatore delle ricchezze, cui il poeta si rivolge per un dubbio che lo tormenta: se la causa della corruzione sia da attribuire agli influssi celesti oppure all’uomo. Dall’anima viene allora esposta la teoria del libero arbitrio, cui è complementare l’enunciato secondo il quale l’anima, uscita ignara di ogni cosa dalla mani di Dio, comincia a poco a poco a rivolgere la sua attenzione ai beni materiali per passare poi, se correttamente indirizzata, a riconoscere in Dio il bene supremo. A svolgere quella funzione di guida sarebbero preposti il papa e l’imperatore; ma ciò non accade per il semplice fatto che il primo ha voluto assumere su di sé il potere temporale proprio del secondo, provocando smarrimento e perdizione. Seguono a questo punto il lamento sul degrado che affligge l’Italia settentrionale e la lode degli unici tre uomini moralmente irreprensibili. Di uno di essi Dante chiede a Marco ulteriori spiegazioni perché non ha capito chi esso sia: ma lo spirito, fraintendendo e quindi indignandosi, interrompe il dialogo e torna sui proprio passi.
CANTO XVII
Luogo: III cornice: iracondi -
scala alla IV cornice -
IV cornice: accidiosi
Il sole sta tramontando e i due poeti escono pian piano dalla cortina di fumo. Dante torna a scorgere, come all’uscita dal secondo girone, tre "visioni": per prima gli appare Progne, poi il ministro persiano Aman, e infine, Lavinia che piange la morte della madre suicida: in tutti e tre i casi si tratta di esempi di ira. Di nuovo una luce abbagliante e poi la voce dell’angelo che indica il cammino per salire al quarto girone. Di nuovo Dante sente cancellarsi una "P" dalla fronte". Nel cielo brillano già le stelle: alla domanda del poeta circa la colpa espiata in quel quarto girone, Virgilio risponde premettendo una vera e propria disquisizione dottrinaria sulla disposizione dell’anima a eleggere l’oggetto del proprio amore, cui segue una parziale descrizione dell’ordinamento del Purgatorio e quindi l’informazione che di cui Dante ha bisogno: il peccato punito nel quarto girone è l’accidia, cioè la tiepida professione d’amore verso Dio. Nel quinto, sesto e settimo cerchio, aggiunge Virgilio, saranno invece espiate le colpe che nascono dall’amore eccessivo per i beni terreni e cioè avarizia, gola e lussuria. Ma, conclude il poeta latino, tutto ciò Dante dovrà apprenderlo con l’ausilio delle proprie risorse.
CANTO XVIII
Luogo: IV cornice: accidiosi
Al termine del suo discorso Virgilio guarda Dante per vedere se ha ben compreso e si accorge, sebbene il poeta abbia timore a confessarlo, che costui è tormentato da un dubbio. Esso riguarda la natura dell’amore e provoca una risposta solo un poco meno dottrinale rispetto a quella del canto precedente. La luna offusca con il suo splendore le stelle, e Dante, pago della spiegazione del maestro, è colto nelle membra da un senso di torpore. Ma ne vien subito scosso dal sopraggiungere in corsa impetuosa delle anime degli accidiosi che gridano esempi di sollecitudine: la visita di Maria a Elisabetta e il passaggio di Cesare in Spagna, durante la guerra civile. L’anima di un abate di San Zeno in Verona, vissuto ai tempi del Barbarossa e della distruzione di Milano, indica a Virgilio il varco per salire al girone successivo: costui corre via velocemente, ma Dante si compiace di riportare, tra le parole da esso pronunciate, quelle particolarmente offensive sul figlio di un certo Alberto della Scala. Virgilio a questo punto richiama l’attenzione di Dante su due anime che, a monito delle altre, ricordano due esempi di accidia puniti: quello degli Ebrei che per fiacchezza non raggiunsero la Terra Promessa e quello dei compagni di Enea che, spaventati dal viaggio, preferirono restare in Sicilia. Allontanatesi quelle ombre, Dante si addormenta.